L’ASINELLO CHE NON VOLEVA ANDARE

Nulla valse a smuover la bestia. Percosse, spinte, buone maniere..
“Tutto è come deve essere, qui voglio stare” esclamò la Voce
E solo allora la folla si placò e ancora lì tutto si trova,
dove fin dal principio era scritto che stesse.

A chi come me vien dalla città sentirsi dare dell’asino potrebbe non esser cosa gradita.
Che poi, in tutta onestà, a me quell’animale piace anche, mi fa simpatia, con quel muso curioso e le orecchie lunghe.. Addirittura mi fa ricordare l’asinello di nome Martino, così si chiamava, che mia nonna Maria che viveva in campagna teneva in un recinto, proprio davanti al grande portone di legno.
Martino era molto gentile, salutava con uno svirgolo dell’orecchio ogni persona che veniva e andava. Uno svirgolo, sì: l’orecchio destro, che teneva ben dritto sopra la testa, l’abbassava parallelo al terreno e rapido lo riportava sù. Un ciao ciao con l’orecchio, mi pareva, a cui aggiungeva un bel raglio sonoro se l’avventore non ricambiava lesto il saluto.
Ma sto divagando.
Dicevo, che chi come me vien dalla città non subito capirebbe chi lo apostrofasse con “Pari l’asino del Santo”. Ma quale santo? Quale asino? Andiamo con ordine, partiamo dal principio!

L’inizio della storia di questo asinello, che chiamerò Martino per simpatie di antiche conoscenze, coincide in realtà con la fine della storia di qualcun altro e non un qualcun altro qualunque:
parliamo di San Giovanni Vincenzo. È proprio lui il santo di cui si parlava poc’anzi, proprio colui che con l’aiuto degli angeli costruì quella chiesa lassù, sul cucuzzolo del monte chiamato Pirchiriano.
Giovanni era santo, sì, ma come tutti i mortali un giorno morì. Scavallò il secolo e nel gennaio dell’anno Mille, con ancora la neve sulla punta dei monti, spirò. Giovanni era santo, però, e come tutti i santi non poteva esser seppellito in terra comune, lo disse il popolo, lo ripetè il clero, lo decise la Chiesa.
Fu emessa di buona lena la santa bolla, la decisione emerita:

“Il Santo Giovanni Vincenzo, nato in Ravenna, che con pietas et fede magna diede albergo all’Angiol Michele, avrà loco di sepoltura in la casa di Dio che lui stesso edificò.”

La firmò il Papa, la lessero tutti e subito ci si adoperò per la sacra traslazione, il mistico trasloco, la nobile impresa.
La processione fu presto pronta: in testa l’Abate, che reggeva alta la Croce, dietro di lui i chierichetti, con le vesti bordate, che avanzavano dondolando i turiboli, poi i diaconi, che con voci baritonali intonavano i canti, poi i preti con le stole viola da lutto e infine il Vescovo, con la mitria e il pastorale. Dietro a tutti, eccolo, il carro! Un carro che così non si era mai visto e tutti si affacciavano alle case per vedere quella meraviglia: un carro che pareva quello di una regina, con le sponde dorate, sei ruote alte davvero, i paramenti dorati e al centro, protetta da tende di damasco, la bara, di legno pregiato, di nobil fattura. Il carro avanzava trainato da quattro pariglie di cavalli da tiro, strigliati a dovere, coi pennacchi dorati sopra il muso. Ah, che meraviglia!

Sant’Ambrogio, va detto, allora non era che un pugno di case, circondate da campi, da boschi, dai monti. Sant’Ambrogio, va detto, allora non aveva nulla di più che due fontane a cui abbeverare le bestie, un fornaio, un ciabattino e la strada maestra che portava in città. Per arrivare all’Abbazia c’era solo una mulattiera, una stradina stretta e impervia che zigazava su per il monte. Forse non lo sapeva la sacra processione, non ci aveva pensato la Curia, fatto sta che per fortuna all’ingresso del paese l’Abate si fermò. Fece con furia arrestare i chierichetti, i diaconi, i preti, la procession tutta e con le gote rubizze dalla vergogna si avvicinò all’orecchio del Vescovo e sussurrò: “Chiedo scusa eminenza, abbiamo un problema. Il carro non è adatto per tentare l’ascesa.”

Il Vescovo strabuzzò gli occhi e nel frattempo una piccola folla cominciava a radunarsi accanto alla schiera.
“Come sarebbe, spiegatevi, orsù!” incalzò l’eminentissimo Vescovo emerito.
L’Abate con tremolanti parole raccontò il percorso che si parava loro davanti. “Attraversare il paese non è un problema, le strade son larghe, i balconi ben pochi, ma è la salita il fatto. È una via lunga e
stretta, con curve e pendii poco adatti alle ruote di legno.”
“Il Santo va seppellito immantinente, si risolvi il problema seduta stante!”
Il Vescovo serrò la bocca e fissò con gli occhi severi l’Abate tremante come un giunco sul lago: l’Abate, va detto, era un uomo di Dio, dedito solo a orazioni e preghiere. Non che fosse un’anima sciocca, sia chiaro, ma l’emozione e la poca pratica delle cose del mondo gli mandarono in corto circuito il cervello e cominciò a balbettare, diventando sempre più rosso, cercando un appiglio che tardava ad arrivare.
Tra i cittadini che erano accorsi, vi era anche quel fornaio che aveva bottega in centro al paese. Era di lingua lunga e poco ritegno e non appena capì che dall’Abate non si sarebbe cavata un cecio di bocca, come parlasse al suo amico più caro, urlò nella folla, diretto all’alto Prelato “Vi presto io il mio buon Martino e al Pieri si può chiedere la lesa! Farà qualche storia, ma basta insistere..”
“Che sta dicendo quell’uomo di Dio?! Chi sarebbe Martino? Cos’è la lesa?! Chi è il Pieri?!” esplose scocciato il Vescovo emerito.
“Chiedo scusa, Eminenza. A parlare è il mastro fornaio di questo paese. Mette a disposizione vostra il suo asinello, Martino è il suo nome. Pieri è invece il ciabattino, che ha la bottega là avanti. La lesa è una sorta di slitta, creata apposta per salire agilmente sulla mulattiera di cui vi parlavo. Non è un mezzo elegante, è fuor di dubbio, ma a conti fatti non è una cattiva idea, va valutata: la lesa scivola lesta sui massi, nulla la frena o la rallenta, e Martino conosce la strada, sale e scende ogni giorno per portar il pane alla nostra Abbazia.”
Aveva parlato in tutta fretta, spinto dall’ansia e dalla premura, anche perché tutt’attorno i prelati in attesa cominciavano a rumoreggiare: il freddo pungeva, era duro aspettare.
Il Vescovo, rabbrividito all’idea di affidare a un umile asino la salma del Santo, si fece condurre ai piedi della strada in questione, per vedere con gli occhi se il problema sussistesse davvero.
Riscontrato che l’Abate, in effetti, diceva il vero, storse il naso, ma subito aggiunse con fare saputo:
“Il Signore Nostro Gesù Cristo scelse un asino per la sua entrata in Gerusalemme. Lo stesso farà il nostro Santo: lui che fu umile fino alla morte raggiungerà trainato da un mulo il luogo del suo eterno riposo”
Lesto l’Abate parlò col fornaio, il ciabattino fu convinto in pochi minuti e tutto fu preparato: Martino il ciuchino venne legato alla lesa, su cui tra nuvole d’incenso e cori angelici, venne deposta la bara del santo. E di nuovo, finalmente, partì la carovana: in testa l’Abate, che reggeva alta la Croce, dietro di lui i chierichetti, con le vesti bordate, che avanzavano dondolando i turiboli, poi i diaconi, che con voci baritonali intonavano i canti, poi i preti con le stole viola da lutto e infine il Vescovo, con la mitria e il pastorale.
E infine, dietro tutti, il fornaio, che fiero teneva le briglie con cui aveva legato Martino e Martino avanzava, placido, ignaro di chi fosse colui che riposava sul carro che stava trainando.
O forse, al contrario, sapeva bene d’esser stato investito di un alto compito e che non c’era tempo da perdere: infatti sfilò tra le case tutto compito, e non si fermò ad abbeverarsi, come suo solito, alla fontana alla fine del paese. Ma proprio quando stava per svoltare l’angolo e il suo zoccolo doveva poggiarsi sui primi ciottoli della strada montana, si arrestò. Si fermò e il suo muso calmo si voltò indietro. Guardò il fornaio e di nuovo indietro, senza più muovere un passo.
L’Abate fu il primo ad accorgersi dell’imprevisto e nuovamente fermò con furia la carovana e, con voce tremante, parlò all’orecchio del Vescovo “Chiedo scusa eminenza, abbiamo un problema.
L’asino si rifiuta di tentare l’ascesa.”
Il Vescovo strabuzzò gli occhi “Come sarebbe, spiegatevi, orsù! Il Santo va seppellito immantinente, si risolvi il problema seduta stante!”
Si agitò l’Abate, si affannò il fornaio, si unirono i chierici coi chierichetti, accorse la folla, si smosse perfino il Pieri dalla bottega. Le tentarono tutte per smuover la bestia: lo spinsero tutti da dietro il sedere, gli sventolarono rape davanti al bel muso, gli sussurrarono all’orecchio dolci parole, ma niente… Non un passo muoveva Martino, solo girava la testa dietro di sé e poi guardava i presenti.
Null’altro.
Il Vescovo sempre di più storceva il naso, sbuffava con forza, non s’era mai vista una storia del genere! Finché, stufo marcio del freddo, infastidito da tanto baccano, persa del tutto la santa pazienza, affidò la mitria a un pallido chierico e avanzò con grandi falcate verso Martino, che continuava a rivolgere i suoi occhi cisposi indietro e poi avanti, indietro e poi avanti, indietro e poi avanti.
Il Vescovo stese il braccio, impose la mano e cominciò a invocare il nome di Dio!
Martino lo guardò sereno e battè una volta lo zoccolo a terra.
Il Vescovo scocciato ripeté la preghiera, in antico latino, e ancora una volta il ciuchino percosse la terra.
Il Vescovo, ormai spazientito, proseguì la giaculatoria, alzando il tono, urlando con foga la sua orazione, quand’ecco che una scossa smosse il terreno.

Non era stato Martino, col suo zoccolo ligneo, non questa volta.

Ammutolì la folla, si bloccarono i chierici, l’Abate e persino il Vescovo dimenticò un braccio alzato nell’aria. Che era stato?! Il terremoto?!
“Tutto è come deve essere, qui voglio stare” esclamò una Voce.
Calò un silenzio profondo. Tutti gli astanti guardavano la bara del Santo: una crepa ora attraversava il pregiato legno. Fu Martino l’unico a rompere il ghiaccio: ragliò e per l’ultima volta volse lo sguardo indietro e poi avanti. Solo allora la folla capì: che dono del Cielo, che miracol divino! Era quello l’estremo disìo del Santo Giovanni, il ciuco Martino si era fermato per una ragione: lì voleva restare la Salma Santa, in mezzo a quel paese che è poco più che un mucchio di case, un fornaio, un ciabattino e due fontane.

Giovanni era santo, però, e come tutti i santi non poteva esser seppellito in terra comune, lo disse il popolo, lo ripetè il clero, lo decise la Chiesa.

Là dove si era arrestato Martino fu dato l’ordine di erigere una Chiesa e lì seppellire quel Santo che finalmente in pace potrà riposare nei secoli eterni che devon venire.

Siam giunti alla fine di questa storia
Tenetela a mente, fatene memoria.
Se vi danno dell’asino non è poi un male

Non è così stupido quell’animale
Ci insegna che in fondo si può cambiar strada
Se quella battuta non si sa dove vada
Ci ostiniamo a seguire i nostri sogni
Senza vedere che son altri i bisogni.

Seguite il cuore, ascoltate l’istinto
Non vi tradirà, mai dirà il finto.
Vi condurrà verso luoghi impensati
Ma profondamente sarete appagati

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